Qual è la realtà della sentenza della Corte Suprema?
«Sono veramente sconvolta per quanto la Corte Suprema ha deciso e devo dire che ho il cuore spezzato perché ora negli Stati Uniti le donne non possono più avvalersi dell’autodeterminazione su un tema così importante», ha detto la “pastora valdese” di Milano Daniela Di Carlo.
“Una sentenza grave, un momento difficile rispetto al quale è necessaria non solo una discussione ma anche una mobilitazione… Ciò che accade ci interroga in modo molto forte e ci invita ad assumere una forte responsabilità se vogliamo davvero portare avanti una testimonianza per affermare libertà, diritti, garanzie per tutte e tutti” le fa eco la collega Ilenya Goss, delle comunità di Mantova e Felonica.
“Le chiese non devono lasciare sole le donne e sono anche chiamate a battaglie civili, affinché a tutte siano garantite le possibilità di decidere sulla propria gravidanza, e in Italia come sappiamo, con un’obiezione di coscienza di troppi medici ciò ancora non è la realtà», commenta un’altra pastora, Letizia Tomassone, da poco a Napoli.
Tutto questo è riportato da Riforma, “settimanale delle chiese battiste metodiste e valdesi”, come principale risposta alla decisione presa a Washington.
Quale atrocità ha commesso la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (che svolge i compiti della Corte Costituzionale italiana) per suscitare queste pesanti reazioni, che vogliono mobilitare le chiese e la loro testimonianza in “battaglie civili”?
Nel 1969 una texana di 21 anni, incinta per la terza volta benché si dichiarasse lesbica, voleva abortire e, poiché le leggi del Texas lo consentivano solo in caso di stupro o di concreto pericolo per la salute della madre, si inventò di essere stata vittima di una violenza sessuale di gruppo. Scoperta la bugia, si rivolse a due avvocate che colsero l’occasione per attaccare le leggi dello stato. Nasceva la causa “Roe contro Wade”. Jane Roe era il nome fittizio della donna (che in realtà si chiamava Norma McCorvey) e Wade era il procuratore della contea di Dallas che difendeva lo stato.
Nel 1973 la Corte Suprema degli Usa concluse la causa dichiarando incostituzionale e annullando la legge del Texas, e con essa tutte quelle analoghe degli altri stati. Stabilì cioè che gli stati potevano limitare la possibilità di aborto, ma non nel periodo in cui il feto non è in grado di vivere autonomamente, se partorito. Questa scadenza è generalmente indicata in 24 settimane, anche se da anni la medicina dice 22 o meno. All’epoca erano solo 4 su 50 gli stati che consentivano l’aborto “elettivo”, cioè fatto per scelta, in assenza pericoli per la salute della madre o di situazioni particolari come stupro e incesto. La sentenza, nota come “Roe contro Wade”, impose così la legalizzazione dell’aborto anche negli altri 46 stati, nonostante la contrarietà dei loro parlamenti.
Nel 1978 il Parlamento italiano approvò una legge, la numero 194 di quell’anno (“la 194 non si tocca” è da allora uno degli slogan della sinistra e delle femministe) che negli Usa, per la sentenza del 1973 sarebbe stata “incostituzionale”, poiché consente l’aborto solo entro le prime dodici settimane. Negli Usa invece i singoli stati possono consentirlo senza limiti, addirittura fino al nono mese, anche immediatamente prima della nascita e sette stati lo consentono realmente.
Su quali basi la Corte Suprema del 1973 stabilì che proibire l’aborto prima della ventiquattresima settimana era contrario alla Costituzione? Sulla base del secondo periodo della Sezione 1 del quattordicesimo emendamento alla Costituzione, che dice:
“Nessuno Stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi Stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi.”
E che c’entra l’aborto? Ragionevolmente nulla. Ma la maggioranza dei giudici della Corte Suprema sostenne che questo emendamento conteneva il concetto di “privacy”, nel senso di controllo del proprio corpo, e che in base ad esso ogni decisione spetta solo alla donna, finché il feto non ha possibilità di vita autonoma. Il “diritto all’aborto” è stato insomma inventato perché nella costituzione americana non c’è, così come non c’è in quella italiana.
E arriviamo alla sentenza del 2022, originata da un ricorso contro una recente legge del Mississippi che vieta l’aborto dopo la quindicesima settimana, salvo i casi di grave malformazione fetale o concreto pericolo per la madre. La Corte Suprema, nonostante le scomposte pressioni arrivate dai grandi mezzi di informazione (e di propaganda), dalla Casa Bianca e persino dal Parlamento Europeo (che non c’entra nulla), ha detto l’ovvio: che nella Costituzione di aborto non si parla, né per vietarlo, né per imporlo, e dunque decidono le leggi, che sono fatte in ciascuno dei 50 stati dai rispettivi Senato e Camera, democraticamente eletti. Di conseguenza, la legge del Mississippi (molto più “abortista” della “194 che non si tocca” perché consente di interrompere la gravidanza tre settimane più tardi), resta in vigore e numerosi stati verosimilmente approveranno norme simili, o anche più restrittive.
Dov’è lo scandalo? La legge 194, “che non si tocca”, è del tutto compatibile con la sentenza di quest’anno e purtroppo lo sono anche quelle dei sette stati americani che non pongono alcun limite. Solo una legge federale approvata ai tempi del presidente Bush figlio vieta l’orrore del “aborto per nascita parziale”, un vero e proprio infanticidio, difeso anche da Hillary Clinton, che preferiamo non descrivere qui.
È difficile spiegare perché molte chiese “evangeliche” si siano scatenate contro questa sentenza, così come le tre pastore che abbiamo citato all’inizio dell’articolo.
La Bibbia non parla esplicitamente di aborto, se non in Esodo 21:22: “Se alcuni vengono a lite e percuotono una donna incinta così da farla abortire, ma non ne segue altro danno, il percuotitore sarà multato in base a quanto il marito della donna gli imporrà; egli pagherà l’indennizzo come determineranno i giudici”. Ma più volte si sottolinea che il feto è un individuo. Ad esempio Geremia 1:4-5: “La parola dell’Eterno mi fu rivolta, dicendo: «Prima che io ti formassi nel grembo di tua madre, ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, ti ho consacrato e ti ho stabilito profeta delle nazioni»”, o Galati 1:15-16: “Ma quando piacque a Dio, che mi aveva appartato fin dal grembo di mia madre e mi ha chiamato per la sua grazia, di rivelare in me suo Figlio, affinché l’annunziassi fra i gentili…”. Insomma: Geremia e Paolo erano già designati profeta e apostolo nel grembo materno. E che dire di quando il bambino Giovanni “sobbalzò nel grembo” di Elisabetta quando incontra Maria, per la gioia di “incontrare” Gesù, concepito da meno di tre mesi (Luca 1:41). La parola greca, brephos, è la stessa che viene usata nei capitoli seguenti per indicare Gesù dopo la nascita e anche in Luca 18:15: “Gli presentarono anche dei piccoli fanciulli perché li toccasse; ma i discepoli, vedendo ciò, li sgridavano.”
Ancora una volta, alla base della posizione di tante chiese “evangeliche” e delle tre pastore non c’è nulla di biblico, né di cristiano, ma solo il conformarsi al pensiero unico globalista che vuole imporre l’aborto come diritto umano fondamentale, sotto lo scudo della “libertà di scelta della donna”, sintetizzata dallo slogan: “My body, my choice”, “È il mio corpo, è la mia scelta”. Come mai, però, chi si fa scudo di questo principio sostiene l’obbligo del vaccino sperimentale anti-Covid o, nella migliore delle ipotesi, tace al riguardo? Il “mio corpo” deve essere usato obbligatoriamente per gli esperimenti (dai pessimi risultati) delle aziende farmaceutiche, mentre il corpo del bambino deve poter essere sempre e comunque soppresso, perché è all’interno del corpo della madre? Più coerente, purtroppo, il tentativo in atto in almeno tre stati degli Usa di depenalizzare l’infanticidio, sempre in nome della “libertà della donna”, e – in California – giustificato anche in chiave “anti-razzista” dal fatto che le donne accusate di tale orrendo reato sono in maggioranza afroamericane. Questo sì meriterebbe una “battaglia civile” delle chiese.
Né la Bibbia, né le costituzioni americana o italiana né la logica giustificano l’isteria sulla sentenza della Corte Suprema. Solo una ideologia anti-umana e anti-cristiana. Quanto a noi, di Sentieri Antichi Valdesi, non possiamo che deplorare le prese di posizione anti-bibliche e dunque anti-valdesi delle tre pastore e delle chiese abortiste. Schierare una chiesa cristiana a favore dell’aborto senza limiti, per di più veicolando il messaggio con falsità e faziosità, è abominevole. Chi vuole combattere queste battaglie, quanto meno, lo faccia a titolo personale.
Una nota finale: la giovane donna, i cui avvocati fecero la causa allo stato del Texas (a lei non importava la battaglia di principio, voleva solo poter abortire alla svelta) determinando la famosa sentenza Roe-Wade, non ottenne l’aborto perché la Corte si pronunciò anni dopo. Cosa fece? Non abortì e, come nelle due gravidanze precedenti, diede il bambino in adozione. Coloro che si battono “per la libertà delle donne” dovrebbero ricordare che c’è anche questa possibilità, oltre a quella di sostenere, con leggi adeguate e con aiuti diretti, le donne e le coppie che hanno difficoltà economiche nel mantenere un bambino.
Leonista
La questione cruciale, vitale non è tanto i vari pronunciamenti, ma è il ruolo stesso della Corte Suprema, che ormai ha assunto il ruolo di deus-ex-machina.
E ancor più preoccupante è quello della nostra Corte Costituzionale, che ancor più di quella americana, soprattutto in vista della sentenza del 26 novembre sull’obbligo vaccinale.
A riguardo riporto questo brano scritto 40 anni fa, attualissimo oggi ancor più di allora:
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Per comprendere meglio quello che la Bibbia dice, tutti i cristiani, ma in particolare i giuristi cristiani, dovrebbero imparare qualcosa di più anche riguardo la Costituzione [Americana]. Ci sono due dottrine della legge che spiegano perché le decisioni della Corte Suprema del gennaio 1973 sono state considerate come legge del paese, senza che ci fosse alcuna base per queste dottrine nella Costituzione. La prima di queste è la nozione di revisione giudiziale, ovvero che solo i tribunali, in particolare la Corte Suprema, abbiano il potere esclusivo di trovare una legge non costituzionale. La seconda è la nozione che la Costituzione significa quello che la Corte Suprema dice che essa significa.
Partendo da questa seconda, fu Charles Evans Hughes, in seguito Giudice Capo della Corte Suprema, a dire nel 1907 che “la Costituzione è quello che giudici dicono che essa sia”. Al contrario, è la Corte Suprema a essere quello che la Costituzione dice che essa sia. Abbiamo adottato una concezione Cattolica Romana della Costituzione: La Suprema Corte sta alla Costituzione, come il Papa sta alla Bibbia. Costoro, e Costui, ci danno l’interpretazione infallibile dei documenti. Dobbiamo ritornare alla concezione originale Protestante che si trova nella Costituzione stessa.
Riguardo la revisione giudiziale, svariati leaders come Jefferson, Jackson e Lincoln concordano che il potere della revisione giudiziale non è stato concesso alla Corte Suprema. Cito da Jefferson:
“Considerare i giudici come gli arbitri ultimi di tutte le controversie costituzionali [è] una dottrina invero molto pericolosa e una di quelle che ci sottometterebbe al dispotismo di un’oligarchia… La Costituzione non ha stabilito nessun tribunale particolare, ben sapendo che, non importa in che mani venga affidato, con la corruzione del tempo e dei partiti, i suoi membri diventerebbero despoti. Essa ha più saggiamente reso tutti i dipartimenti coeguali e cosovrani tra di loro”
Tratto da https://www.cristoregna.it/risorse/laborto-il-cristiano-e-lo-stato/