Il numero di Riforma del 22 novembre 2019 riporta alla ribalta quello che si autodefinisce il “settimanale delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi”.
In terza pagina, tra le decine di migliaia di chiese evangeliche del mondo, si ritiene di dedicare un ampio articolo alla “chiesa episcopale di St. Paul di Boston” (vedi anche la versione online). Perché? Perché “al venerdì ospita, dall’estate del 2000, circa 300-350 musulmani, per lo più uomini, per la preghiera di mezzogiorno”. Visto che le chiese evangeliche non sono “luoghi sacri”, la cosa in sé potrebbe essere indifferente e dunque – peraltro – non degna di un articolo su un settimanale evangelico italiano. Il fatto è che non si tratta di semplice ospitalità, ma di condivisione rituale, peraltro inserita nel programma settimanale di attività della chiesa. Infatti, leggiamo, nel 2014 “la chiesa ha sostenuto ingenti spese di ristrutturazione (10 milioni di dollari – il doppio dell’intero bilancio dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi – Nostra nota) per lavori come la “rimozione dei tradizionali banchi”, in modo da consentire di distendere sul pavimento “una quindicina di file di tappeti da preghiera di seta” e la “installazione di lavabi per le abluzioni rituali”. Non viene precisato se nei culti della
chiesa ospitante i fedeli devono anche loro portarsi un “tappeto da preghiera” o devono stare in piedi o dove possono sedersi. Dunque, non si tratta solo di condivisione di spazi, ma di stravolgerli – a caro prezzo – per le esigenze rituali di ben altra fede.
Tutto questo – secondo Riforma – deriverebbe dal fatto che quella chiesa “ha come motto le parole di Isaia 56,7 «una casa di preghiera per tutti i popoli»”. E qui c’è il vero problema. A parte il dettaglio che questo “motto” non appare in tutto il sito della chiesa episcopale di Boston ma solo sulla parete delle postazioni lavapiedi (!), se davvero in quell’edificio si fanno riti musulmani in nome
di quel versetto, vuol dire che le parole di Isaia vengono stravolte, assai più dei “tradizionali banchi”, dando ad intendere che il profeta auspicasse di offrire spazi a qualsiasi culto. L’abitudine di queste chiese ultraliberali di snaturare il significato della Parola di Dio si manifesta qui in modo particolarmente sfacciato. È infatti, quello di Isaia 56, un passaggio denso di messaggi fondamentali, ed è particolarmente riprovevole prendere otto parole (cinque in ebraico), fuori contesto per far dire al profeta tutt’altro da ciò che dice e nascondere il resto. Basterebbe citare il versetto 7 per intero per capirlo, ma per essere più chiari ancora partiamo dal versetto 3 : “E non dica l’eunuco: <<Ecco, io sono un albero secco>>. 4 Poiché così dice l’Eterno: <<Agli eunuchi che osservano i miei sabati, scelgono ciò che a me piace e si attengono fermamente al mio patto, 5 darò loro nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome, che varranno meglio dei figli e delle figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato. 6 I figli degli stranieri che si sono uniti all’Eterno per servirlo, per amare il nome dell’Eterno e per essere suoi servi, tutti quelli che osservano il sabato senza profanarlo e si attengono strettamente al mio patto, 7 li condurrò sul mio monte santo e li riempirò di gioia nella mia casa di orazione; i loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa sarà chiamata una casa di orazione per tutti i popoli>>. Il Signore, l’Eterno, che raduna i dispersi d’Israele, dice: <<Io raccoglierò intorno a lui (Israele) anche altri, oltre a quelli già raccolti>>.”
Dunque, quel che Dio dice, per bocca di Isaia non è: “qualunque religione va bene”, come fanno intendere gli episcopali di Boston. Ma proprio il contrario: non importa il popolo o la condizione personale, purché ci si converta e si seguano gli insegnamenti di Dio. E aggiunge che persone di tutte le etnie si convertiranno. Secoli prima del Messia Gesù, l’ebreo Isaia annuncia che altri popoli si aggiungeranno a quello di Israele nel seguire i comandamenti dell’Eterno, il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Non una divinità qualsiasi.
È bello sapere che le parole del versetto 5, “un posto e un nome”, in ebraico si dicono “Yad Vashem”, e sono state scelte dallo Stato di Israele per denominare il memoriale delle vittime della Shoah, per dire che anche per quei bambini uccisi e dunque rimasti senza figli come fossero eunuchi, e così per quegli uomini e donne i cui figli sono stati sterminati anch’essi, Dio prepara un nome eterno nella sua casa. Lo Yad Vashem li ricorda nella Gerusalemme terrena, ma anche nella Gerusalemme celeste lo saranno.
Ecco: prendere questo messaggio, di una forza straordinaria, per giustificare tutt’altro è veramente un’operazione desolante.
Orbene, condividere spazi con altre religioni può essere accettabile, ma se si dice di farlo in nome di Isaia 56 vuol dire rifiutare Cristo, via, verità e vita, in nome del “tutto va bene”, del “tutto è uguale”. E l’unico modo di rendere uguali Islam e cristianesimo è o negare la veridicità di uno di essi, o di entrambi.
Nota finale, quasi leggera rispetto a quanto abbiamo appena scritto. Riforma non si chiede come mai quei 300-350 musulmani sono “per lo più uomini”? Nello stesso numero del settimanale ci si scaglia, allineati al moderno femminismo anti-maschile, contro la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne. Ma non si ha nulla da dire sul fatto che i musulmani releghino a casa la maggior parte delle loro donne.
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