Mentre continua il mistero su che cosa abbia approvato il Sinodo il 29 agosto – salvo ritenere “obsoleto” il Documento su Matrimonio e Famiglia del 1971 che parla di matrimonio fra un uomo e una donna – continuano ad arrivare elementi che dovrebbero spiegare le motivazioni della decisione.
Il 21 settembre su Riforma, compare la “prima di una serie di quattro meditazioni” del pastore Paolo Ribet, presidente della Commissione famiglia, matrimonio e coppie di fatto – nominata dalla Tavola con grande attenzione a non includervi nessuno dei tanti valdesi contrari alla deriva anti-famiglia oggi prevalente, specie tra la nomenklatura.
Come abbiamo avuto più volte modo di verificare (invitiamo i lettori ad usare la caselle di ricerca di questo sito che funziona molto bene), il pastore Ribet non delude mai, e anche questa volta ci regala alcune perle, utili per capire il modo di ragionare dei “nuovi teologi”. Del resto, avevamo rilevato che, nella memorabile conferenza stampa che doveva spiegare la decisione sinodale, sia Ribet sia il neo-professore di teologia pratica Enrico Benedetto erano stati bene attenti a non citare alcun passo biblico a sostegno delle loro stravaganti tesi. Ora ci dovremmo attendere da questa meditazione, che compare nella pagina intitolata “All’ascolto della Parola”, fior di argomenti che dimostrino la fondatezza biblica della concezione di “famiglia” che è stata evidenziata nella conferenza stampa: qualunque aggregazione di persone, anche temporanea, è del tutto uguale a ogni altra.
Ecco la prima perla, buttata lì come premessa dogmatica: “pur coscienti del fatto che la Scrittura non è un codice di leggi, ma è l’annuncio della grazia di Dio…”. È un vecchio errore (o trucco) dialettico: si pone una falsa alternativa che induce a una falsa scelta. Molti titoli di libri o di saggi storici funzionano così: “Napoleone: genio militare o cinico carrierista?”, “George Washington: difensore dei propri interessi economici o padre della patria?”, “Franklin D. Roosevelt: politico opportunista o leader vittorioso contro la tirannia?”. Titoli stimolanti, ma ingannevoli: si tratta di false alternative, che possono invece essere tutte e due vere. Napoleone, Washington e Roosevelt potevano essere sia l’una sia l’altra cosa. La Bibbia è certamente annuncio della Grazia, ma questo non impedisce che contenga delle indicazioni per la nostra vita. La Confessione di Fede del 1655, che anche il pastore Ribet ha solennemente sottoscritto al momento della sua consacrazione, afferma che “conviene ricevere questa Santa Scrittura per divina e canonica, ciò è per regola della nostra fede e vita”. È talmente specifica questa definizione che sembra scritta in risposta all’affermazione di Paolo Ribet: non c’è contrapposizione – dice la Confessione – perché la Bibbia è sia divina, in quanto appunto annuncia la grazia di Dio, sia canonica, in quanto ci dà un “canone”, una regola, appunto, come ribadisce in seguito, sia di fede sia di vita.
Ma il pastore Ribet ha affermato che “la Scrittura non è un codice di leggi”. E qui arriva il secondo errore (o trucco): un altro tipo di falsa alternativa. Si contrappone un eccesso a ciò che si vuole affermare, credendo (o fingendo) che se è falso il primo deve per forza essere vero unicamente il secondo. Tornando agli esempi di prima, uno scrive “Napoleone, generale invincibile o cinico carrierista?”; poiché è noto che Napoleone ha perso delle battaglie si pretende che sia stato esclusivamente un cinico carrierista senza alcuna altra qualità. In realtà, è ragionevole affermare che Napoleone è stato sia un grande stratega, benché non invincibile, sia un carrierista. Il coordinatore della Commissione sulla famiglia vorrebbe invece convincerci che la Bibbia è solo l’annuncio della grazia, ponendo come alternativa che sia un “codice di leggi”. Codice di leggi no, ma Parola di Dio che ci offre preziose indicazioni su tanti aspetti della vita, inclusa quella matrimoniale e familiare, certamente sì. Basta ricordare “Non commettere adulterio” (Esodo 20:14), ribadito e rafforzato da Gesù in Matteo 5:27-32 e 19:3-10, oltre ai passi paralleli negli altri evangeli e in parecchie lettere di Paolo e non solo. Ma Ribet pretenderebbe di cancellare questo e cento altri passi biblici, nel presupposto che, alla fine, la Bibbia sia nulla più di un generico “volemose ‘bbene”, quella “benevolenza”, di cui il prof. Benedetto (nella conferenza stampa sinodale del 30 agosto) dice, unendo il pollice alle altre dita rivolte verso l’alto e portando la mano su e giù: “se l’Evangelo non è questo , che cosa sarà mai?”.
Con questa premessa, illogica, contraria alla Confessione di Fede che ha sottoscritto, e naturalmente alla Bibbia, comincia l’indagine sui passi biblici che hanno a che fare con la questione famiglia/matrimonio. Non è un inizio incoraggiante. Infatti, continua affermando che Genesi 2:18-24 “non mostra alcun segno di voler esprimersi in termini matrimoniali”. Ma chi l’ha detto? Cosa manca a un matrimonio? Ci sono gli sposi, c’è Dio e c’è il consenso (sia pure solo dell’uomo). Che cosa manca al nostro teologo: l’abito bianco, il banchetto, lo scambio degli anelli, i fotografi e le televisioni come per la “sobria” cerimonia” celebrata per i due maschi “sposi” nel tempio valdese di Milano? Ribet si sofferma sul fatto che non c’è il consenso di Eva. Gli andrebbe ricordato che Eva non aveva molta scelta, evidentemente. Gli andrebbe ricordato che in questo capitolo 2 si cerca “un aiuto per l’uomo” che in altre creature non si era trovato e pertanto il consenso di Adamo era necessario. Gli andrebbe ricordato che al capitolo 1:27 uomo e donna sono creati insieme, e che l’espressione di 2:24: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne” è formulata come un comandamento. Insomma: occorrerebbe quella contestualizzazione di cui sempre parlano questi teologi, quando fa loro comodo! Certo, mancando una descrizione della liturgia, come invece avviene per il battesimo e per la cena del Signore, vediamo che il matrimonio non è un sacramento, ma ciò in ambito protestante è ben chiaro da 500 anni.
Il tentativo di Ribet è però quello di partire da questo per affossare del tutto l’istituto matrimoniale nel suo insieme, dimenticando proprio quel “Non commettere adulterio” di cui abbiamo detto e quelle centinaia di matrimoni tra uomo e donna descritti nella Bibbia. L’impegno alla reciproca fedeltà, che non è solo sessuale ma di vita in generale, non è determinato dal fatto che il matrimonio sarebbe un sacramento, o dalla cerimonia non sacramentale, ma dallo stesso fatto che i due si scelgono reciprocamente. Persino nel matrimonio cattolico il celebrante non è il prete, ma gli sposi. Il comandamento contro l’adulterio non è una qualsiasi proibizione rituale, ma porta a superare l’approccio animalesco (e non di tutti gli animali) per cui l’accoppiamento non comporta alcun legame o obbligo reciproco. Ecco perché la fedeltà è prescritta a tutti indipendentemente dal tipo di cerimonia con cui gli sposi sanciscono la loro scelta. Chieda Ribet a quei giovani che “si mettono insieme” se va loro bene che il compagno o la compagna vada con il primo che passa!
In ogni società ci sono modi di assumere pubblicamente l’impegno reciproco e per noi, cristiani, è naturale farlo davanti a Dio, in presenza di fratelli e sorelle. Tuttavia, poiché a Ribet, a quanto pare, disturba la cerimonia delle “nozze”, potrebbe volgere la sua creatività verso nuovi modi di celebrare o prendere atto di unioni tra uomo e donna, non nell’inventarsi unioni tra uomo e uomo, tra donna e donna, unioni temporanee e molteplici e chi più ne ha più ne metta.
Poiché, se è vero che nella Bibbia non c’è alcuna descrizione dettagliata di cerimonie nuziali, – che pure lo stesso Gesù menziona più volte, e in maniera oltremodo positiva (“Il regno dei cieli è simile a un re, il quale preparò le nozze di suo figlio…” Matteo 22:2) – è anche vero che tutti i matrimoni di cui si parla nella Bibbia sono un impegno pubblico e permanente. Se qualcuno vuole o pratica qualcosa di diverso, se qualcuno non vuole che la propria unione sia dichiarata e nota come permanente, non si vede che cosa la Chiesa, dovrebbe riconoscere, celebrare o benedire.
“Nella Bibbia c’è relativizzazione della famiglia”, ma nei passi che cita vediamo il contrario
Il passaggio seguente della meditazione intende persuaderci che “l’Antico Testamento non si preoccupa di offrirci un particolare modello di famiglia. Semplicemente assume quelli presenti nella società”. E aggiunge che comunque la famiglia dell’Antico Testamento è “una struttura molto lontana dalla nostra sensibilità, non applicabile al nostro tempo”. La conseguenza esplicita di tale affermazione sarebbe: poiché oggi ci sono convivenze temporanee, coppie dello stesso sesso, aggregazioni varie, anche questi modelli sono “famiglia”. Ulteriore conseguenza implicita, probabilmente voluta anch’essa: la parola e il concetto “famiglia” perdono ogni significato. Sarebbe come definire “chiesa” qualunque gruppo di persone che si ritrovano ogni tanto: la “chiesa” che prende l’autobus, la “chiesa” del partito politico, la “chiesa” che partecipa a fiere e feste in piazza, la “chiesa” della curva dello stadio, la “chiesa” dei bagnanti sulla spiaggia e così via. E forse l’intenzione è anche questa: la chiesa dovrebbe riconoscersi in una Confessione di Fede e, essendo evangelica, questa dovrebbe essere basata sulla Bibbia. Poiché la Bibbia dà fastidio, meglio ritrovarsi senza troppi problemi, fare un po’ di politica, amministrare l’8 per mille e definirsi “chiesa”.
Abbiamo notato più volte che le coppie che convivono senza sposarsi, le coppie gay ecc. non sono certo state inventate nei decenni scorsi, ma, tornando alla meditazione, vediamo come il pastore tenta di dimostrare che l’Antico Testamento sarebbe acritico rispetto alla famiglia. Secondo lui si passerebbe “da una “casa” che assomiglia a un clan e in cui un uomo poteva avere più mogli, a quella più strettamente monogamica dei tempi più vicini a Gesù”. E qui, torniamo ad altri errori (o mistificazioni) simili a quelli già visti, come la falsa contrapposizione tra Bibbia come “codice di leggi” e Bibbia come “annuncio della grazia”. In primo luogo, non c’è necessariamente contrapposizione, in secondo luogo, più che di codice di leggi si dovrebbe parlare di insegnamento. Gli ebrei hanno sempre indicato quello che noi chiamiamo il Pentateuco, i primi cinque libri dell’Antico Testamento, come תורה (torah), che vuol dire appunto “insegnamento”. È perciò un libro da cui si impara. Ad esempio, non tutti i modelli di famiglia che vengono mostrati sono di per sé buoni. Certo, Giacobbe/Israele aveva due mogli e ebbe figli anche dalle loro serve. Ma perché si ritrovò con due mogli? Perché il suocero l’aveva imbrogliato lasciandogli intendere che gli avrebbe dato in sposa Rachele, di cui era innamorato, e invece gli diede Lea, costringendolo a lavorare altri sette anni per avere quella che davvero voleva. Questa famiglia allargata funzionava bene? No, davvero: c’era rivalità fra le due mogli, ciò che le portò a ricorrere alle serve per vincere la gara di fecondità, i primi dieci figli per invidia vendettero schiavo l’undicesimo dopo aver pensato di ucciderlo, uno dei figli insidiò la madre di alcuni dei suoi fratelli, e molte altre ne combinarono. Davvero, non un esempio positivo. Anche il padre del profeta Samuele ha due mogli, anch’esse litigiose fra di loro al punto che quella più amata dal marito va in depressione. Anche Gedeone, un grande giudice, ha molte mogli che gli danno settanta figli, ma il figlio da lui avuto da una concubina li uccide tutti. Vogliamo sostenere che la Bibbia incoraggia alla poligamia e al concubinaggio? È proprio vero che a volte i teologi acquisiscono una tale dimestichezza con la Bibbia che non riescono più a trarne quell’insegnamento che le persone semplici percepiscono immediatamente. Sarebbe come dire che Manzoni, autore dei Promessi Sposi così come Dio è autore della Bibbia, “non ha un modello particolare di uomo di chiesa” visto che descrive il pavido Don Abbondio, tanto quanto l’eroico Fra’ Cristoforo o lo ieratico cardinale Federigo.
Nella sua strenua ricerca di modelli alternativi di famiglia, Ribet ricorre a quattro esempi. Il primo è Tamar, che “ha un rapporto con suo suocero pur di dare una discendenza al defunto marito e per questo viene lodata”. Peccato non sia vero che Tamar viene lodata! L’unica volta in cui si parla di lei, oltre all’asciutto racconto della sua vicenda e alle tre menzioni nelle genealogie, è in Rut 4:12, dove il popolo loda Boaz, che ha preso in moglie Rut, e gli dice: “sia la casa tua come la casa di Fares, che Tamar partorì a Giuda”. Semmai, la lode è alla famiglia di Fares, figlio di Tamar, non a Tamar. L’esempio non funziona.
Secondo esempio di “relativizzazione della famiglia”: “Abramo viene invitato a lasciare il suo paese e la sua famiglia per rispondere alla vocazione che Dio gli rivolge”. Ma, se leggiamo Genesi 12:4, sappiamo che Abramo, quando riceve la chiamata, ha 75 anni, è sposato e non gli viene ordinato di lasciare la moglie, ma i genitori idolatri. La vocazione di Abramo, dal punto di vista della famiglia non è dunque altro che la conferma di Genesi 2:24 “l’uomo lascerà suo padre e sua madre…”.
Il terzo esempio di “relativizzazione” scelto da Ribet è il fatto che “[a] Osea viene ordinato di sposare una prostituta sacra”. Probabilmente chi ha frequentato la facoltà si teologia sa – chissà come – che la moglie di Osea era una prostituta sacra, ma chi legge la Bibbia non lo sa. La parola usata e il comportamento scritto fanno più che altro pensare a una donna licenziosa e desiderosa di comodità: “io andrò a’ miei amanti che mi danno il mio pane… la mia lana e il mio lino…” (2:5): se proprio vogliamo definirla prostituta, è chiaro che lavora in proprio, non per un tempio, ma questo poco importa al pastore Ribet. Chiunque legga il libro di Osea percepisce i fortissimi aspetti metaforici della relazione tra Osea e sua moglie Gomer, paragonati a quelli tra Dio e l’infedele popolo d’Israele che va dietro agli idoli; e anche che il matrimonio con una donna infedele (ovvero “prostituta”, sacra o profana che sia) è mostrato in maniera paradossale,come una cosa negativa, una disgrazia, e non certo come insegnamento. Tant’è vero che nell’ultimo capitolo c’è il tipico ammonimento: “Chi è saggio faccia attenzione a queste cose. Chi ha intendimento le comprenda.” In ogni caso viene esecrato il comportamento licenzioso di Gomer, la quale viene poi indotta al pentimento. Nulla, dunque, al di fuori della tradizionale concezione della famiglia e del matrimonio.
Il quarto esempio è che “a Geremia viene detto che non può sposarsi (16:1-4)”. Forse questa è la volta buona che troviamo l’agognata “relativizzazione della famiglia”. E allora andiamo a vedere Geremia 16:1-6: “Poi la parola del Signore mi fu rivolta dicendo: «Non prendere moglie né avere figli o figlie in questo luogo». Poiché così dice l’Eterno riguardo ai figli e alle figlie che sono nati in questo paese e riguardo alle madri che li hanno partoriti e ai padri che li hanno generati in questo paese: «Essi moriranno di morti atroci; non saranno rimpianti né sepolti, ma saranno lasciati come letame sulla superficie del suolo; saranno sterminati dalla spada e dalla fame, e i loro cadaveri saranno pasto per gli uccelli del cielo e per le bestie della terra».” C’è dunque una ragione precisa per cui Geremia non deve prendere moglie: sul suo popolo sta per abbattersi l’ira del Signore e a lui spetta il compito di annunciare la Sua volontà. Chi metterebbe al mondo dei figli davanti alla certezza rivelata direttamente da Dio di quale atroce sorte li aspetta di lì a poco? E chi ha mai dubitato che la volontà di Dio viene prima della famiglia, tanto più se, come Geremia, non si ha ancora una propria famiglia? Insomma, evidentemente il teologo Ribet è sfortunato perché su quattro citazioni non ce n’è una che dimostri una relativizzazione della famiglia, ma solo che ovviamente Dio è più importante della famiglia. Forse sarà più fortunato nelle ulteriori tre meditazioni sull’argomento che Riforma promette. Ricordiamoci tuttavia che, alla lunga, queste “decisive” prove sulla relativizzazione della famiglia dovrebbero convincerci che il Documento sinodale sulla famiglia del 1971, che parla di un uomo e una donna che si sposano e hanno dei figli, è obsoleto e che, come ha detto l’ex moderatora Maria Bonafede, le benedizioni alle coppie gay sono “bibliche al cento per cento”! Per ora siamo un po’ lontani dalla meta! Anzi, i passi citati ci convincono del contrario.
Intanto, però, apprezziamo che lo stesso Ribet si senta costretto ad ammettere – sia pure con evidente rammarico – che nella Bibbia “la famiglia ha certamente un ruolo centrale nella struttura della società” e, citando il professore di teologia, e non solo, Giorgio Girardet, ricorda come “non si trovi nell’Antico Testamento una riflessione critica sulla famiglia, o un qualche invito a rivederne le strutture fondamentali”. Certo, la citazione di Girardet prosegue con la faccenda della relativizzazione, ma abbiamo visto quanto evanescente si dimostri questo concetto quando si vadano a leggere i passi che lo dovvrebbero dimostrare.
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